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Albert Nobbs non piscia per strada

 

Albert Nobbs è un maggiordomo di un hotel di lusso nell’Irlanda dell’Ottocento.
Albert Nobbs è molto attento, è riservato, impeccabile.
Albert Nobbs è una donna.
Ma nessuno lo sa. Nessuno deve saperlo.
La finzione inizia quando è appena quattordicenne, scelta come unico modo per sopravvivere, in quanto figlia bastarda ed orfana e perciò donna destinata all’abbandono e all’emarginazione.
La vita en travesti le assegna un nuovo ruolo sociale, che le consente di condurre una vita  sufficientemente dignitosa e rispettabile, fino a farle sognare di poter raggiungere la completa autonomia e la realizzazione dei suoi desideri di normalità.
Glenn Close è straordinaria nell’interpretazione di Albert e riesce a trasmettere al pubblico, con il suo portamento controllato ed il suo sguardo vigile, intimorito e così tenero, il travaglio del mondo interiore di una donna, che cerca di sopravvivere alla cultura maschilista e cattolica dell’Irlanda del diciannovesimo secolo.
Non è sola nella lotta per la sopravvivenza. A farle compagnia altre figure “miserabili”, altre donne vittime (ed una carnefice) della società in cui vivono. Anche i ricchi partecipano pienamente al gioco sociale del travestimento, conducendo vite in cui indossano le maschere volute dal conformismo, maschere che cadono non appena chiudono le porte delle loro stanze.

Le vicende dei personaggi del film offrono lo spunto per riflettere sulla complessità della sessualità umana, oggetto in ogni epoca di azioni-restrizioni normative da parte della società.
Sesso biologico, genere sessuale, orientamento sessuale e ruolo di genere sono concetti ben distinti e ben conosciuti da tempo dalla scienza, ma a tutt’oggi sembrano essere ignorati, confusi e negati da molte persone.
Ognuno di noi può descrivere la propria sessualità attraverso una delle opzioni di ciascuna delle seguenti frasi:
Sono nato/a maschio o femmina (ma non sempre, esistono  casi di interesessualità alla nascita).
Mi sento un uomo o una donna.
Desidero sessualmente/affettivamente gli uomini o le donne o entrambi.
I miei comportamenti ed atteggiamenti sono considerati tipicamente maschili o femminili secondo le aspettative della società in cui vivo.

Le persone non possono sempre definire se stessi attraverso la stessa polarità per ciascuna opzione e a volte i confini tra le opzioni non sono sempre così netti. Ecco allora che abbiamo un gruppo di persone “atipiche”, “diverse” e condannabili agli occhi del benpensante e del moralista di turno, paladino dei valori di una società oscurantista e bigotta, come quella in cui vive Albert.
L’epoca di Nobbs è ormai lontana ma c’è chi ancora oggi lo avrebbe considerato “vergognoso come chi piscia per strada”. E non siamo nell’Irlanda dell’Ottocento.

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SHAME

La curiosità e il gossip che circolavano da mesi sul web riguardo le numerose scene di sesso e di nudo integrale, che tanto avevano destato scalpore all’ultima Mostra del cinema di Venezia, hanno  contribuito alla promozione di “Shame” di Steve McQueen, film che fotografa esplicitamente la routine quotidiana del sex-addicted Brandon e come essa venga interrotta e perturbata dall’arrivo dell’altrettanto disturbata sorella.
Il protagonista è interpretato magistralmente dall’algido Michael Fassbender, il cui sguardo glaciale   facilita il regista nell’esprimere la freddezza del mondo interiore di Brandon. La dipendenza dal sesso è il problema che evidentemente ingabbia la vita dell’uomo in un’ininterrotta serie di coiti reali e virtuali, che non lasciano spazio vitale ad affetti e relazioni significative. Il vuoto devitalizzato sembra proprio essere lo stato mentale in cui Brandon si trova  nella maggior parte del tempo e la fotografia e i tempi del film lo comunicano in modo molto efficace, tanto da far sentire  “controtransferalmente” allo spettatore un senso di gelido distacco. Quest’ultimo viene interrotto solo dalle scene in cui Brandon oscilla verso stati transitori di rabbia, che lo portano ad agire una sessualità compulsiva auto ed etero-diretta.
Il sesso è la sua cura. L’eccitazione diventa l’unica possibilità per uscire dal vuoto o per modulare emozioni disturbanti. Non a caso la “vergogna” del titolo non si riferisce solo ai comportamenti moralmente discutibili del protagonista, ma ad un’occhio clinico, rimanda ad una delle emozioni più difficili da regolare per le personalità narcisiste. Il film non racconta infatti solo una delle nuove dipendenze, che nel caso di Brandon, a mio  avviso, risulta essere il sintomo principale di un disturbo narcisistico di personalità, disturbo che rischiava tempo fa di essere estromesso dalla quinta edizione del DSM “per eccessiva diffusione” e che invece, presentandosi spesso in comorbilità,    è  una chiave di lettura molto utile nella comprensione e nel trattamento di alcuni disturbi di asse I  (es: depressione, dipendenze, ansia sociale).
Il narcisismo viene frequentemente rappresentato nel senso comune e da alcuni esperti solo attraverso il senso di grandiosità esibito da chi ne soffre e che invece è solo una delle sue facce. Il narcisista in realtà dietro l’apparente altezzosità, cela sentimenti di forte inadeguatezza e bassa autostima, che tenta di colmare attraverso la ricerca di ammirazione da parte degli altri, il cui giudizio, potenzialmente minaccioso, diventa la misura del proprio valore. Nelle relazioni, le persone narcisiste tendono a proteggersi, mostrandosi emotivamente fredde, distaccate, eccessivamente autosufficienti ed isolandosi; il distacco si accentua inoltre quando sentono gli altri bisognosi di aiuto (ciò è evidente nelle interazioni di Brandon con la sorella).
Le emozioni legate al sistema dell’attaccamento, che è alla base delle relazioni affettive significative, non vengono riconosciute, e se affiorano tendono ad essere negate o producono altre emozioni negative (es: ansia, rabbia) difficili da regolare.
Brandon, nel corso del film, sembra a tratti prendere consapevolezza del suo problema, che la presenza invasiva della sorella contribuisce ad evidenziare. I pochi cenni alla loro storia di vita precedente (emozionante è la scena in cui lei cantando, esprime la loro sofferenza di emigrati e di provinciali e i loro desideri di rivalsa nella “Città che non dorme mai”) ci aiutano a produrre delle fantasie sulle probabili cause ambientali delle loro vite disturbate. Le difficoltà relazionali dei due fratelli non consentono loro di garantirsi un valido supporto reciproco e ciò è reso più evidente nella parte finale del film, quando entrambi, dopo una discussione violenta centrata più o meno esplicitamente sul reciproco bisogno di aiuto, si avviano al momento di scompenso maggiore.
Si parla ormai molto delle nuove dipendenze, a volte come se fossero delle novità nel panorama psicopatologico, mentre si tratta spesso di “nuovi” sintomi, che possono essere compresi in maniera più approfondita e trattati, alla luce di conoscenze cliniche ben note nella letteratura scientifica..

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I ragazzi stanno bene

 

Una famiglia non tradizionale, raccontata in maniera convenzionale, è la protagonista del film “I ragazzi stanno bene”, uscito nelle sale nel weekend appena trascorso. Due figli nati da due mamme diverse e da un unico donatore di sperma, decidono di voler conoscere il loro padre biologico e l’ingresso dell’uomo nella vita dei protagonisti destabilizzerà l’equilibrio del sereno nucleo familiare.

Un film che rappresenta uno spaccato della società statunitense, dove in alcuni Stati è legale il matrimonio tra persone dello stesso sesso ed è possibile per le stesse diventare genitori attraverso l’adozione e/o pratiche di fecondazione assistita. L’omogenitorialità è un tema critico in molti Paesi, in Italia lo è ancora di più, considerando che resta uno dei pochi Stati europei a non prevedere ancora un riconoscimento legale delle unioni omosessuali.

In merito alla questione, è importante citare lo studio del 2005 dell’American Academy of Pediatrics, che avviò uno studio finalizzato ad esaminare gli effetti del matrimonio e delle unioni civili sulle condizioni psicosociali e la salute psicologica dei bambini con genitori omosessuali. I risultati della ricerca hanno dimostrato che non esiste una differenza significativa tra lo sviluppo dei bambini allevati da genitori dello stesso sesso e quelli cresciuti da genitori eterosessuali. Non sembra esserci dunque alcuna evidenza scientifica delle affermazioni, secondo le quali i figli di famiglie omoparentali corrono rischi specifici, legati all’orientamento sessuale dei genitori. L’American Psychoanalytic Association nel 2002 stabilisce che “é nell’interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti e capaci di fornire cure. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale”.

Ciò che influenza la crescita sana dei bambini è invece la qualità delle relazioni familiari; abusi, maltrattamenti, trascuratezza emotiva e nelle cure materiali sono i fattori di rischio che possono compromettere il benessere dei bambini, facilitando la comparsa di sintomi psicopatologici e lo sviluppo di una bassa autostima, influenzando il rendimento scolastico e la capacità di sviluppare valide relazioni sociali e affettive.

In Italia, le famiglie omogenitoriali esistono e hanno formato una associazione che si chiama “Famiglie Arcobaleno”(www.famigliearcobaleno.org), con lo scopo di tutelare e dare voce ad una realtà che spesso è poco conosciuta e discriminata.

L’amore genitoriale non ha genere, nè orientamento sessuale e a dirlo non è solo il buon senso, ma la comunità scientifica lo ha dimostrato.

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